Nel giorno internazionale dedicato alle donne, desideriamo celebrare una delle più importanti istituzioni della Eparchia di Piana degli Albanesi che è il Collegio di Maria.
Voluto fortemente da Padre Giorgio Guzzetta e da monsignor Brancato, è stato anche un educandato di primo livello che ha contribuito in modo determinante al cambiamento delle condizioni delle donne che provenivano dai diversi comuni albanofoni in Sicilia. Qui le donne imparavano le arti della casa e soprattutto l'arte del ricamo che ha contribuito alla creazione ed al mantenimento dei bellissimi paramenti sacri e poi alla creazione dei nostri costumi tradizionali.
Per entrare nella vita del Collegio di Maria in Piana degli Albanesi, che ha una storia incredibile degna di un romanzo, abbiamo scelto un racconto scritto dal professore Stefano Schirò.
Zëmbër e ëmbël (tradotto dall'albanese: Cuore dolce) è il titolo di questo racconto che si snoda nel settecentesco Collegio di Maria di Piana degli Albanesi e nella chiesa dell'Odigitria ad esso annesso, lì dove tuttora rifulgono al pari dei ravennati mosaici bizantini i cosiddetti "ricami divini" in oro zecchino, testimonianza di una Sicilia luminosissima. I fatti e le atmosfere cercano di avvicinarsi al cosiddetto stile gotico inglese così come la letteratura inglese funge da "aroma" per esornare questo piccolo "plot" dove alcune suore risultano le protagoniste; dominante la eco dell'Amleto di Shakespeare nella reinterpretazione in chiave mistica della eroina Ofelia (qui Suor Ofelia), nonchè gli influssi di certe prose di Oscar Wilde. Senza scordarsi di un dannunziano odore di rose, di certe surreali epifanie, di fondamentali opere d'arte conservate in questo mirabile sito, nel nuovo allestimento curato da Salvatore Vasotti, come la Theotokos dello ieromonaco Ioannikios, la tela ottocentesca del pittore di Piana Pietro Petta allievo del neoclassico Patania, e la tela scoperta di recente da chi scrive raffigurante un Sacro Cuore di Gesù, nei cui occhi dimora il mare, dipinta da Giuseppe Almeyda (l'autore del teatro Politeama di Palermo) insieme alla moglie Eleonora Mancinelli illustre poetessa e da essi donata alla superiora del Collegio stesso (Suor Nicolina Carnesi) nel novembre del 1905.
Salvatore Vasotti
©️ visitpiana.com
Zëmbër e ëmbël
Tintinnavano le foglie, il cielo cinereo con striature rade, turchine si rifletteva sullo specchio ovale della stanza del collegio di Maria di Piana degli Albanesi, lo spazio angusto della cameretta era un trionfo di rose; vi stavano petali insecchiti sopra la bibbia in albanese, rose vive e seriche entro il vaso cinese dove vi era raffigurato un dragone rosso vino che sovente, nelle prime notti di castità perenne spaventava suor Agata, perfino il rosario odorava di quei dannunziani fiori ed essa lo adoperava apotropaicamente.
“Perché suor Ofelia deve passeggiare nel corridoio la notte? Per poi fare la sua solita performance sotto l’oleandro nei pressi della vasca con l’acqua? Perché quel refrain iterato all’infinito? L’Odigitria ti indicherà la via, L’Odigitria ti indicherà la via….” Così rimuginava tra sé e sé la giovane suora mentre la più anziana, colei dall’amletico nome continuava a ripetere con voce altisonante quella frase, testimone della sua passione per la lingua greca: Oδηγήτρια, colei che conduce, mostrando la direzione.
“Se Gericault il pittore avesse conosciuto suor Ofelia ne avrebbe tratto ispirazione per dipingerne una monomania…risulta oltremodo odiosa quanto rumorosa durante le sue notti di matta insonnia” commentava l’indomani, sommessamente e leggermente divertita suor Cunçeta, sogghignando, “E lo stesso artista avrebbe contemplato il tuo acne per ritrarre realisticamente qualche cavallo pomellato, altra sua passione congenita” le rispondeva con astio Suor Nikja, conoscitrice di arte francese e inglese ottocentesca e di arte siciliana di ogni epoca, mentre Suor Agata cercava di sedare il contenzioso folle per due anime pure come loro: “Siamo gigli nel giardino del Divino, suvvia, non ha senso oltraggiare”. La sua voce al pari della lira di Orfeo fu irenica in quel contesto.
Agata Donzelli era la più giovane del collegio di Piana, vi pose piede nei primi anni del ‘900, insegnava grammatica prima della sua illuminante vocazione e una grande procella scosse le sue vetuste mura domestiche quando il padre seppe del suo amore unico per Cristo, il suo sposo: “Colui che mi degustò l’anima e me la bevve tutta, me l’ha derubata, sarò sempre sua” asserì al cospetto dei suoi genitori, parlò loro di Cristo romanticamente citando l’ultima parte del De Profundis del Wilde, aggiungendo che da quel momento avrebbe contemplato lo spettacolo della vita con le emozioni appropriate. Con il volto rigato da copiose lacrime citò anche un verso della Ifigenia in Tauride di Euripide:
“Il mare lava le macchie e le ferite del mondo” chiosando “il mio mare, Θάλασσα come scrive con pathos lo scrittore classico, è Dio, ed è immergendomi in lui che troverò la quiete dell’anima, la mia atarassia, la mia luce abbagliante”. “Che la Platyera, la Vergine che contiene l’Incontenibile, veneratissima a Piana possa accoglierti nel suo ventre immenso come il mare, che la Vergine Odigitria di Piana ingentilita dalla sua mantellina cerulea con i tipici ricami in oro zecchino possa proteggerti sotto le sue stoffe con lo stesso gesto accogliente della Madonna della Misericordia di Piero della Francesca, che san Panteleymon di cui sempre a Piana ho studiato una magnifica tela, possa prendersi cura della tua anima candida più di una colomba” disse la madre tremolante e facendo vibrare fiocamente le corde vocali, poi piombò sulle braccia del marito con movenze teatrali simili a quelle della Addolorata nella pala Baglioni del Sanzio.
Suor Agata, all’interno della sua nuova dimora sacra voluta dallo zelo ardente del Papas Antonino Brancato e dall’inossidabile ingegno di Padre Giorgio Guzzetta nei primi decenni del settecento, praticava la nobile arte del ricamo. Coadiuvate dalla superiora Nicolina Carnesi le suore confezionavano paliotti, piviali nonché fulgide ncilone ovvero gonne in seta ricamate in oro con pattern fitomorfi tipiche della tradizione pianiota, con alcune delle loro opere vinsero a Venezia nel 1928 il primo premio assoluto nell’adunata dei seimila costumi tradizionali provenienti da tutta Italia. “Perfino Luchino Visconti sarebbe rimasto abbagliato da tanto sibaritismo e magari avrebbe scelto una di queste vaporose gonne per la scena del ballo ne il Gattopardo, enfatizzando ancora più lo charme della Cardinale” così si esprimeva, trasognante Suor Matilde. “Questa tua smisurata cinefilia e in specie per le scene romanticissime chissà in quale girone dantesco ti condurranno” mormorava una delle sue compagne, ed essa, replicava con garbo: “Che sciocchezze il Minotauro e i suoi giri di coda, di fronte alla mia anima illibata inorridirà a tal punto che la sua codaccia sarà tutto uno gnommero”, tutte le sorelle ridacchiavano, ciascuna emettendo suoni dai decibel personalissimi. “Fanciulle, per Bacco! Sacro è pur sempre il ricamo…” concluse la Superiora. Suor Agata apprezzava molto le contraddizioni della superiora la quale univa il mito, gli dèi pagani, la letteratura arcaica a ciò che più profondamente le apparteneva: il suo credo, la sua essenza di cattolica di rito orientale. “Care ragazze il corso di ricamo che da oggi avrà inizio lo appelleremo “La resurrezione di Penelope”, e le Penelopi solertissime sarete voi, fedeli al vostro unico Sposo e ai suoi vicari per i quali confezioneremo vesti più splendide del mantello di Ruggero II. Il nostro ergasterion diventerà un modello di riferimento per altri che sorgeranno nella nostra Sicilia, tutto in Sicilia diventa mito. Suor Agata la interruppe: “Perché proprio Resurrezione di Penelope?”, a cui prontamente l’altra: “Ho copiato questo nome da questo articolo pubblicato dal Giornale di Sicilia del 24 novembre del 1937 della eminente studiosa nata a Mezzojuso, altro paesino arbëresh (albanese) come Piana, che si è occupata di arti decorative: Maria Accascina, personalità alla quale dovete avvicinarvi con la stessa benevolenza con la quale la Madonna Glicofilusa appropinqua la sua guancia al Piccolo Gesù”. Suor Agata dal multiforme ingegno tra le tante iconografie della Vergine amava proprio quella, nel Collegio ce n’era una di antichissima fattura; ella pregava infatti sovente in silenzio al cospetto della Madonna Glicofilusa realizzata dallo ieromonaco Ioannikios, ne contemplava le morbide cromie, rubescenti quelle del peplo che si imporporavano ancor più quando vi dedicava qualche cero che spandeva l’odore salubre del miele, la candela accesa acuiva il rifulgere dello sfondo aureo dell’icona greca e delle tre stelle simbolo di verginità incorrotta; e lei essendo di rito greco-bizantino grecamente cantava Axion Estin È veramente giusto proclamarti beata, o Madre di Dio,beatissima e totalmente pura, Madre del nostro Dio. All’arte greca lei si avvicinava ancor più, ne squarciava il velo, l’essenza, il noumeno adoperando parole greche, si dissetava sondando gli occhi quasi egiziani della Theotokos, accostandosi a tal punto prima con la fronte e poi con le labbra fino a gustarne i sapori della antica tempera all’uovo. "Ogni rappresentazione emerge – scrisse P. A. Florenskij – in un mare di dorata beatitudine, lavata dai flutti della luce divina.
Ma fino a che punto l’arte imita la natura? Al cospetto dell’arte bizantina la natura si prostra ed è essa stessa ad imitare l’arte; lessi qualcosa di simillimo nel saggio di Oscar Wilde Intentions. The Decay of Lying”, in tale modo dotto dissertava Suora Nikja, la storica dell’arte e Agata si complimentava: “Sei apodittica, ma cosa significa The decay of Lying?” “Il declino della menzogna…” e con sarcasmo attoriale: “Ciò che l’Arte in realtà ci rivela è che la natura manca di scopo, ci mostra la di essa brutalità, la sua straordinaria monotonia e la sua condizione di assoluta incompletezza. Naturalmente le sue intenzioni sarebbero buone, ma, come disse una volta Aristotele, essa non riesce a metterle in pratica”, vispamente Agata le domandò “Allora che ne pensi delle gonne che ricamiamo con motivi liberty, con quei dinamici colpi di frusta, quei racemi? E di quegli ostensori in argento e oro raggiati come il sole che sono custoditi nelle vetrine del nostro salottino dell’arte? O di quei reliquari o di quelle coperte di vangeli o ancora degli altari della chiesa nostra in marmi mischi e tramischi, che non costituiscono altro che una sorta di erbarium, di enciclopedia della botanica, un florilegio sulle forme dei fiori? Non è forse l’arte che imita la natura?”. Ti rispondo leggendoti un pezzo del saggio che ti ho appena citato: “Perché, che cosa è la natura? Non è la grande madre che ci ha generato. È una nostra creatura. È nella nostra mente che essa prende vita subitanea. Le cose esistono perché noi le vediamo; quel che vediamo e come le vediamo dipende dalle arti che ci influenzano…Oggigiorno vediamo la nebbia non perché essa esista, ma perché pittori e poeti ci hanno insegnato quale sia la misteriosa grazia del suo effetto. La nebbia può esserci sempre stata a Londra, e devo dire che è così. Ma nessuno l’ha vista, e non ne sapevamo niente; essa non è esistita fintanto che l’Arte non l’ha inventata.”
“Sei straordinaria, icastica, davvero mi commuovono le tue doti” echeggiò Agata, e approfittando della disponibilità e della chiarezza cartesiana della sua conversatrice: “Quella tela nell’altare con gli stemmi della famiglia Schirò, cosa rappresenta? Noto un certo influsso michelangiolesco nella possa dei nudi, mia mamma, anch’essa amante dell’arte mi narrava di un’opera d’arte di Pietro Novelli, pittore di Monreale del seicento proprio qui ubicata…”; come una sorta di dea ex machina, con la stessa sicurezza di una Nike, Suor Nikja (nomen omen), la Cavalcaselle di Piana sentenziò: “Si tratta di una rappresentazione delle Anime purganti, vedi per esempio alcuni corpi immersi tra le fiamme…il pittore fu un certo Pietro Petta di Piana dei Greci, allievo del neoclassico Patania e l’opera in questione è una copia esatta dal Novelli. Qui più che mai ut pictura poësis, infatti ricorrendo ad un altro parallelismo che solo Dante può offrirci, estrapolandolo questa volta dal XXVII canto del Purgatorio (vv. 10-12):
…«Più non si va, se pria non morde, anime sante, il foco: intrate in esso, e al cantar di là non siate sorde».
Dopo le edificanti elucubrazioni, si misero a pregare "Shën Mëria e Dhitrjes parkales për ne…Madonna Odigitria prega per noi”, la struttura architettonica di gusto tardo barocco, una delle poche progettate dal Novelli assieme alle architetture effimere e Porta Felice a Palermo, è dovuta ad una committenza al femminile, del resto un tempio, una ecclesia da dedicare alla Odigitria meritava un marchio muliebre, dacchè vi fu aggregato circa cento anni dopo il collegio e la tipologia di colonne che la esornano presenta capitelli ionici, di solito usati per i templi costruiti in onore alle dèe. La cupola ottagonale internamente di un azzurro convalescente, resa austera da alcune costolonature dal colore ancora più scialbo, proiettava nel vespero ombre tremolanti sul capo delle due donne velate; le icone creavano un dedalo poetico tra una navata e l’altra, santi dai nomi impronunciabili a sfoggiare barbe cotonate, prolisse, mani a forchetta più di quelle dipinte dal Cimabue; su un altare di marmo rosso montecitorio (estratto dal monte Kumeta) una Santuzza dall’incarnato cereo vigilava sulle due suore in contemplazione; accanto al transetto un labaro su cui era stato pazientemente ricamato un Sacro Cuore di Gesù, lui sembrava sbucare da un romanzo di Zola o di Verga per il suo crudo realismo, del resto era il mese di Giugno, dunque quello adatto per esortare le sorelle tutte alla sua venerazione. Ex abrubto udirono uno schianto terribile, seguito da un urlo orripilante, neanche Edipo superò quella voce assordante quando si trafisse gli occhi o quando Marsia venne brutalmente scorticato, le parole del funesto episodio furono: “L’Odigitria ti indicherà la via”. I cuori di Suor Agata e Nikja palpitavano al pari di quello di Atteone mentre i suoi stessi cani lo stavano sbranando, corsero nell’hortus conclusus che odorava di magnolie e malerba, una grande macchia di sangue indurito emanava un intenso profumo di rose freschissime e andava via via assumendo la forma di un cuore. “O Krishti i Bekuam, O Cristo Beato!” dopo avere pronunciato tali parole così svenne l’intenditrice d’arte, mentre altre monache cercavano lungo i corridoi, nelle camere, in chiesa, nel confessionale, ovunque Suor Ofelia.
“Dov’è la superiora?” diceva nel turbinio folle l’una, rispondeva un’altra “Si è recata a Palermo per ritirare alcuni broccati per una pampinija (gonna) , della crêpe georgette nera per una gonna del Venerdì Santo, del velluto viola per un xhipuni (giubbino), una donna bennata ci ha commissionato tali pezzi per completare la sua collezione di abiti tradizionali di Piana, una certa Euphrosine Whitaker, una inglese di Marsala.
“Suor Matilde, ti sembrano ragguagli importanti in un momento di panico assoluto come questo?” ululò imbestialita Suor Cunçeta. “Suor Ofelia è scomparsa, eppure sembrava sua la voce dell’urlo, e suo di certo il contenuto: “L’Odigitria ti indicherà la via”, il suo diuturno ritornello, la sua sempreverde nenia.
Una bruma color avana investì ogni centimetro quadro del collegio e della chiesa, dalla navata centrale dove stava collocata la statua lignea della fine del XVIII secolo della Madonna Odigitria si accendevano degli strani bagliori aurei, era come se i ricami divini del suo manto prendessero vita, quei rami e quei fiori dorati venivano attraversati da chissà quale clorofilla, torcendosi in singolari acrobazie, sottoposti a una astrusa legge fisica si metamorfosavano in liquidi dalle cromie poco definite e strisciavano sui tappeti, poi sui marmi bianchi, e come bisce d’acqua e con la stessa eleganza delle fanciulle di Klimt in Sangue di pesce indicavano una via. Era una strada da percorrere? Cosa stavano a significare? Era sogno o realtà? Forse in campo cinematografico qualcosa del genere viene etichettato con il termine dissolvenza, tutto sembrava sbiadirsi, trasformandosi in nebbia, mai nelle rappresentazioni tragiche di Siracusa è stato messo in scena qualcosa di così spettrale, di così fantasmagorico. E quell’urlo superava di gran lunga la truculenza ideata da Sofocle, Euripide, Eschilo, persino quella romana di Seneca, a cosa si ispirava l’arte di Suor Ofelia? Alla Letteratura, alla Natura ferina? Alla sua anima? Al suo es?
La nebbia serpentiforme condusse Suor Agata in una stanza buia, era la stanza impolverata dell’armonium, chiusa a chiave da venti anni, le porte si spalancarono autonomamente, a terra inciampò su un cofanetto eburneo mamelucco dentro il quale qualcosa tamburellava, si udiva inoltre “Agathè, buona, virtuosa, custodiscimi, rivelami”, ella tremò ma volle aprire il bauletto, in una polla vi stava immerso un cuore su cui vi era incisa la parola sacer, seguito da tre parole in minuscola carolina: zëmbër e ëmbël (“cuore dolce” in albanese); si trattava orbene si un sacro cuore, il quale come una Afrodite Cnidia si sollevò dal suo bagno di morte (in una sintomatica variante della shakespeariana Ofelia) e si catapultò su una tela appesa dietro una tenda di mussola color croco.
“Ma quella è….quella è….” balbettò Agata sconvolta, e Suor Nikja risorta completò: “È il sacro cuore di Gesù che ha bramato per sé il cuore più puro di tutte noi, quello di Ofelia, colei che ha più sofferto perché il suo tanto amato Amleto le uccise il padre, e lei da allora invece di affogare in un corso d’acqua decise di “affogare” nell’amore del vero Padre, immenso più del mare”, ““Il mare lava le macchie e le ferite del mondo” aggiunse Agata, le stesse parole che usò per la sua consolatio ad matrem et patrem, “Quanta empatia mi legò a suor Ofelia, la ascoltavo ogni notte, a volte mi infastidiva eppure inconsciamente la comprendevo”.
“Quella è una tela dipinta da Giuseppe Damiani Almeyda, l’architetto del teatro Politeama di Palermo, insieme alla moglie, la straordinaria poetessa Eleonora Mancinelli, essa è il simbolo dei loro cuori uniti e del loro intelletto:
Ed ecco come l’indole umana imita l’arte, la letteratura, un cuore vivo, puro, pulsante, emblema stesso della natura sì, ma di quella umana, usufruisce del sangue che da esso irrora per dipingere un tassello mancante di un’opera d’arte, per farne parte pienamente, per divenire arte o pura poesia:
“Il nostro amore sia come/ un pomeriggio lento./ Ne l’aria senza vento/ fluiscon le tue chiome,/ che già folte di rose/ ondeggiarono al sole” (Eleonora Mancinelli Almeyda, Rime, Invito alla fedeltà (vv. 17-22).
Prof. Stefano Schirò
si consiglia la lettura del libro "Damiano Almeyda ed il volto di Gesù" di Stefano Schirò
Comments